Monte Vettore come mai visto

Ovvero vivere un tramonto struggente dalla vetta più alta dei Sibillini.


Uno strano inverno che non arriva e che ha tenuto lontano le perturbazioni ci ha regalato una infinità di giorni con cieli tersi quasi privi di nubi, non ci ha imbiancato le montagne come avremmo voluto, ma ci ha rifilato una serie di tramonti incredibili, dalle sfumature pastellate come poche volte capita di vedere così di continuo. Dalle finestre dell’ufficio tutti i pomeriggi, dalle foto postate in Facebook, mi sentivo continuamente coinvolto e attirato da quei colori, riflettevo su quanto sarebbe stato bello poterli vivere nel posto giusto e al momento giusto. E’ nata così l’idea di andare a viverle quelle emozioni, in prima persona e in quasi solitudine, in montagna, e di farlo in un posto il più possibile esclusivo. Ancora di più di farlo in un posto a me particolarmente caro e conosciuto.
Il tramonto dalla vetta del Vettore.
Strana la pianificazione di una escursione con l’unico obiettivo quello di catturare le luci ed i colori, quello di essere in vetta poco prima del tramonto; la mattina è tutta a disposizione, la partenza da casa a fine mattinata, non ha importanza il sentiero di salita, anzi più è conosciuto e più sarà semplice il ritorno in notturna, ogni studio del percorso è stato superfluo. Il buio in questo periodo arriva tra le 17 e le 18, intorno alle 17e30, più o meno alle 16 toccava arrivare in vetta, per avere il tempo di vivere l’eclissarsi del sole ed avere quello di fare qualche migliaio (si fa per dire) di foto; Forca di Presta è la più scontata delle partenze, tre ore o poco più il tempo per arrivare alla croce, il sentiero è iper conosciuto e scendere con le frontali non sarebbe stato un problema. Quando hai un impegno così dilatato finisci per non prendere altri impegni, la mattina passa lenta, mi viene in mente che non avevamo un termos, corro a comprarne uno, l’inverno sarà pure finto ma sempre alla fine di Dicembre siamo e a quasi 2500 metri, quando il sole finirà di regalarci il suo tepore, un po’ di the caldo ci darà senz’altro piacere. Partiamo lenti da casa, forse un po’ in anticipo, tanto ci avvicineremo senza fretta; ma la strada da fare è poca, per quanto la prendiamo con calma, arriviamo a Forca di Presta molto prima dell’una. Sul versante sotto la piramide del Vettore la temperatura è primaverile, aria ferma e sole tiepido illudono, sulla sella, come sempre, spira un vento teso fastidioso che spinge ad affrettare la partenza. Prendiamo a salire il sentiero che tante volte abbiamo percorso, ormai conosciamo anche i sassi, non abbiamo fretta, non c’è una nuvola in giro manco a pagarla, pregustiamo già i panorami che ci toccheranno da li a poco. Mentre alle spalle il Sevo poco imbiancato domina l’orizzonte, subito dopo le prime rampe si scopre la piana di Castelluccio, completamente priva di neve, qualche striscia dove il sole batte meno ma l’ambiente è quello di fine inverno, con qualche campo già arato; poco sopra l’orizzonte si apre fino al mare, spunta il Corno Grande, anche la piramide del Velino, confusa nelle tante creste dell’orizzonte si intuisce senza troppi problemi. Solo sul mare, lontano, è presente una leggera nuvolaglia, di certo nebbia, speravo che sulle pianure marchigiane ristagnassero nuvole o nebbie più compatte perchè ci sentissimo ancora più isolati, invece sembra che così non sia. Per quanto lenti si sale, le solite rampe ripide e poi le dorsali piatte, il tempo di affannarsi e di riprendersi, forse è questo andamento ordinato che lo fa essere uno dei sentieri più frequentati dell’Appennino. Passiamo accanto al Vettoretto, vinco la solita bramosia di toccare l’omino di vetta ma ci fermiamo sulla sella, il canale di San Lorenzo che da lì inizia, è quasi del tutto privo di neve, anche la cima del Vettore, per quello che si può vedere da quì, risulta scoperta, pazzo inverno. Vale la pena perdere qualche minuto per godersi il panorama che si gode da questo balcone, ormai anche tutta la cresta del Gran sasso si è scoperta alle spalle della Laga, il profilo dei Monti Gemelli mi riporta a due giorni prima quando dentro le gole del Salinello siamo stati alla ricerca degli eremi dei fraticelli, ora mi sono più familiari, indugio sul monte Ceresa, dal valico del Gattuccio, sotto la piramide del Vettore, scopro che è facile salirci, qualche boscaglia, piccole dorsali, presto sarà il motivo di una passeggiata. Davanti abbiamo tutto il lungo traverso fino al rifugio, quaranta minuti, ovviamente scoperto da neve, ovviamente sotto vento, abbiamo sofferto di caldo mentre salivamo, pazzo inverno ancora. Il rifugio Zilioli è ancora al sole, al coperto dal vento, per riposarsi del lento salire e per mangiare qualcosa sembra il posto ideale, un paradiso con vista sul mondo. Ci troviamo due ragazzi, in completo relax, sono del nord, di Como e di Varese, è stato facile fare amicizia e scambiarci suggestioni. Siamo rimasti una mezz’ora, forse più, da quì alla vetta serviva ancora meno di un’ora e il tempo non ci mancava, anzi rischiavamo di arrivare anche con troppo anticipo. Tra chiacchiere, “dritte” turistiche ai ragazzi per il giorno dopo (nel frattempo si erano uniti altri due loro amici di ritorno dalla cima proprio del Vettore), avrebbero fatto turismo in quel di Ascoli, e il gioco che prediligo quando sono in alto, cioè ripercorrere ogni valle, ogni singola cresta e cima alla ricerca di quello che conosco e di quello che merita essere approfondito, era giunta l’ora di ripartire. Tutta la dorsale che sale verso la vetta era completamente priva di neve, solo in alto pochi e piccoli passaggi ci hanno costretto a bagnarci gli scarponi, anche se la costrizione è un termine eccessivo; avendo voluto avremmo potuto aggirare ogni singola lingua nevosa. Nel frattempo e lentamente le ombre si allungavano e i colori tendevano al rosso, la tonda mole del Vettore con i suoi pratoni di erba arsa stava assumendo una tonalità rosso bruciata, contrastava enormemente con le ombre che erano scese nella valle del lago; il versante opposto, ormai tra noi ed il sole, stava assumendo contrasti fortissimi, la cresta illuminata che saliva a Cima di Prato pulito era una lama di confine tra luce e buio, sembrava ancora più sottile; quella fino al Redentore e a Cima del Lago era così proiettata nel blu del cielo e nella luce del sole che ci sembrava poter vedere ogni piccola asperità, ogni pietra e sasso che sporgesse. I ghiaioni che scendono verso il lago, i costoni rocciosi verticali che lo dominano erano solo scure e indistinte muraglie senza grandi dettagli; serviva far abituare la vista per distinguerli. Tutto così familiare eppure tutto così diverso, come la luce possa influire sulla percezione di ciò che abbiamo intorno è cosa risaputa ma viverlo con i propri sensi è cosa assolutamente affascinante. Continuiamo a salire l’ampia dorsale, schivando le piccole lingue di neve e a tratti lungo il sentiero, in altri momenti attraversandole e deviando per i pratoni asciutti, capiamo di essere in anticipo sui tempi, la croce si inizia a percepire; la cresta che scende verso il lago è innevata fin quasi alla vetta, è interrotta per una decina di metri e poi riprende nel versante verso Cima di Pretare, in mezzo roccia pulita ed il canale erboso che scende verso di noi. Lo prendiamo a salire un po’ più diretti e verticali, ci serve per evitare di calpestare la neve ancora molle e fradicia, arriviamo in cima intorno alle 16 quando tutte le tonalità delle montagne e delle ombre, non che quella degli orizzonti e del cielo hanno iniziato a prendere toni tenui e virare verso il crepuscolo. Il vento è leggero quasi assente a tratti, la luce è ovattata come l’atmosfera che di minuto in minuto, di secondo in secondo si fa sempre più “intima”; il sole brilla verso Ovest, di poco sopra le creste del Redentore, non è più una palla abbagliante, quasi la si riesce a fissare, le ombre sono lunghissime ed i colori caldi quasi irreali. Continuiamo a girare la vetta in lungo e in largo, verso tutti i versanti, ogni istante è diverso da quello precedente; solo una leggera coltre di nuvole si stende lontana sul mare, la sagoma scura del monte Conero è nettamente percepibile e il cono d’ombra del Vettore si allunga netto sulle colline marchigiane, se lo si fissa si ha l’illusione di vederlo allungarsi; la Laga e tutta la lunga cresta del Gran Sasso godono ancora di una buona luce, i profili sono marcati nell’ormai lieve azzurro del cielo. Ma è volgendo lo sguardo a Nord-Ovest che si ricavano le sensazioni più belle e quasi uniche; il sole illumina di taglio il territorio, le montagne minori che si stendono verso Ovest si confondono in una giostra di mille tonalità rosate, sembrano le onde di un mare placido appena increspato, solo il Terminillo ne esce con tutta la sua mole. Il sole ormai in picchiata colora tutto di irreali toni caldissimi, le creste del Redentore e quella che scende fino al Torrone hanno toni vicini al rosso bruciato, quasi marroni, dove c’è erba, toni rosati quando questa lascia spazio alle rocce e le poche lingue di neve, che aiutano a seguire i profili, sono pallide e meno bianche. La lunga valle del Lago si va velocemente spegnendo e scurendo, i raggi del sole da tempo non ci arrivano più ed ormai laggiù la notte è davvero più vicina. Spinti dalla solita smania di portarci via questi momenti continuiamo a scattare foto in ogni direzione ma è in quel momento che ci siamo resi conto che ci stavamo perdendo l’attimo irripetibile. Placata la frenesia dello scatto, coinvolti dall’immobilità della luce, da quella dell’aria, siamo diventati un tutt’uno con l’eterea consistenza di quel momento. I monti, gli orizzonti, i profili che si andavano oscurando, le ombre lunghissime, i colori innaturali eppure invasivi, soprattutto per le nostre emozioni, variavano di tonalità via via che lo sguardo si allontanava dal sole. Non credo di esagerare se dico che erano momenti di magia pura, coinvolgente, intensa, dolce, emozionante al limite del comprensibile, si leggevano e interpretavano col cuore prima che con la mente. Eravamo soli, in un posto usuale per tanti di noi, eppure in quel momento così esclusivo; ci sentivamo graziati e privilegiati da quella vista di un mondo così bello tutto sotto ai nostri piedi. Non saremmo mai voluti scendere. Quando il sole inizia a giocare a nascondino con la cima di Lago Pulito intuiamo che la notte sarebbe piombata da li a poco, era arrivato il momento di alzare i tacchi, un lungo viaggio di ritorno ci attendeva, un viaggio mutevole di colori e di orizzonti, in balia della terra che silenziosa stava continuando a girare e a portarci via il nostro astro. Abbiamo preso a scendere che l’erba dei prati che calpestavamo sembrava stesse per prendere fuoco o che si fosse addirittura appena accesa, lungo la dorsale verso il Ziloli solo la Laga e il Gran Sasso godevano ancora della luce diretta del sole, quant’anche tenue e rosata, quant’anche se solo per poco ancora; basso sulla lunga distesa di montagne il sole lanciava gli ultimi raggi, filtravano tra le ondulazioni delle creste, sembrava di poterli contare esattamente come si contano in un disegno di un bambino, bruni, a tratti ancora leggermente dorati davano vita alle spianate o alle tonde creste mentre spegnevano quelle più affilate. Gli ultimi bagliori che sembravano saette venivano sostituiti dalle luci delle illuminazioni dei paesi a valle che si accendevano lentamente una dopo l’altra; in quel momento mi sono ritornati in mente i meccanismi artigianali che avevo costruito da ragazzo per dare ai presepi il passaggio dal giorno alla notte, l’effetto era da quassù molto più bello, e soprattutto più vero ed intenso. Gli ultimi bagliori di luce ci seguono fin sulla sella del Vettoretto, la cupola del cielo è ormai buia, le stelle, soprattutto verso Est la popolano già a migliaia, la inconsistente sagoma del Sevo e della Laga godono di un bagliore riflesso dovuto della poca neve, è una eterea presenza che ci accompagnerà fin quasi alla macchina; solo ad Est, una lama sottilissima illumina il mondo, ma lo fa da far impazzire la ragione. Sono un amante dei Film di Star Treck, ricordate quei cieli striati, coloratissimi, impossibili da descrivere ma che hanno fatto volare le nostre fantasie? Mi sentivo come in un film di Star Treck mentre scendevo il sentiero, striature rosse, nuvole rosse fuoco, si sfilacciavano in un fondo ancora leggermente azzurro, una lama all’orizzonte illuminata da un sole che stava già dando la sveglia nell’altro emisfero; e la lama che si assottigliava lentamente mantenendo le sfumature dei colori, sempre meno vivi, sempre più sottile, fino a sparire e contemporaneamente esistere ancora come un ultimo respiro prima del trapasso. E poi buio, anzi no, ancora un fiotto di luce, poi buio, buio e sempre più buio, notte! Aveva le sembianze di un miracolo quel momento, di una poesia silenziosa, di uno straziante addio del giorno; non ci siamo detti nulla io e Marina, camminavamo lentamente, tenendo le frontali spente il più possibile, fermandoci a fissare quel miracolo e rimuovendoci per poi ribloccarci ancora. Solo alla fine è bastato uno sguardo tra noi, non ci siamo visti, era buio, ma ci siamo capiti. Non era freddo, nemmeno il forte contrasto nel momento del passaggio del giorno alla notte abbiamo sentito, forse eravamo rapiti, perché una volta buio, abbiamo sentito il bisogno di allungare il passo. Le frontali facevano il loro dovere, il sentiero era noto, non rimaneva che scendere veloci fino alla sella di Forca di Presta. Il solito vento ci ha accolto al passo, ma si trattava solo di raccogliere le cose e l’auto ci avrebbe protetto. Ancora un’ultima emozione silenziosa, spegnere motore e luci, uscire nel buio più totale e fissare la volta celeste, la via Lattea, lo sciame di stelle, miriadi di puntini luminosissimi, aloni biancastri di chissà quali altri mondi. Chissà se lassù, su uno di quei puntini luminosi, su quelli più lontani che formavano solo gli inconsistenti aloni lattiginosi , chissà se il miracolo del tramonto esisteva bello come si vive sulla terra? Credo e spero di si. La giornata era finita, non c’era più nulla da prendere, molto, moltissimo ci eravamo presi, ci era stato regalato; nei pochi chilometri fino ad Ascoli moltissime immagini ci sono ripassate davanti, tutti i colori, tutti gli orizzonti. Ogni commento era banale, eravamo semplicemente felici.